Egr. avvocato questo è il mio quesito. Mi accingo a separarmi consensualmente. Premetto che sono sposato in separazione dei beni e che la casa in cui vivo e di cui continuo a pagare le rate del mutuo è di mia proprietà . Può mia moglie vantare qualche diritto o il giudice potrebbe assegnarla a lei anche se non abbiamo figli . inoltre mia moglie chiede un assegno di mantenimento di 550 euro cosa per me non fattibile visto che percepisco uno stipendio di 1450 euro di cui 525 per rate del mutuo .
cordiali saluti.
Gianni
Risposta: secondo il più recente orientamento della Corte di Cassazione, in materia di separazione e divorzio, il godimento della casa familiare è finalizzato alla tutela della prole, quindi, in assenza di prole, il titolo che giustifica la disponibilità della casa familiare, sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi, è giuridicamente irrilevante, con la conseguenza che il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale (Cass. 24.7.2007, n. 16398).
Si riporta di seguito il testo dell sentenza n. 3934/2008 della Corte di Cassazione in materia di assegnazione della casa familiare:
“(…) l’art. 155 cod. civ., nel testo vigente sino all’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sotto la rubrica “provvedimenti riguardo ai figli”, al quarto comma prevedeva: “L’abitazione della casa coniugale spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”. Tale norma era stata interpretata, già con la sentenza a Sezioni Unite del 23 aprile 1982, n. 2494, nel senso che essa, attribuendo al giudice il potere di assegnare l’abitazione nella casa familiare al coniuge cui vengono affidati i figli, che non sia il titolare o l’esclusivo titolare del diritto di godimento (reale o personale) sull’immobile, avesse carattere eccezionale e fosse dettata nell’esclusivo interesse della prole minorenne, con la conseguenza che essa non poteva essere ritenuta applicabile, neppure in via di interpretazione estensiva, al coniuge non affidatario. Quella decisione si fondava su due argomenti: anzitutto, avuto riguardo alla rubrica dell’art. 155 c.c. (provvedimenti riguardo ai figli), la norma appariva diretta a regolare il caso in cui vi fossero figli minorenni, riguardo ai quali dovessero adottarsi i provvedimenti di cui ai primi due commi, cosicché il suo enunciato normativo doveva essere interpretato in coerenza con tale oggetto e l’affidamento della prole ne costituiva pertanto il presupposto necessario. In secondo luogo l’abitazione nella casa familiare non poteva essere assegnata, in mancanza di figli minorenni, in forza dell’art. 156 c.c., in quanto tale articolo non conferiva al giudice il potere di imporre al coniuge obbligato al mantenimento di adempiervi in forma diretta e non mediante prestazione pecuniaria.
Con l’entrata in vigore della legge 74/1987 – la quale all’art. 6, in materia di divorzio, ha disposto che “l’abitazione della casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età” e “in ogni caso il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole” – il principio ora detto era stato esteso anche all’assegnazione della casa familiare a favore del genitore con il quale convivessero figli maggiorenni, non ancora economicamente autosufficienti, sulla base della identità di ratio rispetto all’assegnazione in caso di affidamento di figli minorenni (ex multis: Cass. 6 aprile 1993, n. 4108; 17 aprile 1994, n. 2524; 12 gennaio 1995, n. 334; 17 luglio 1997, n. 6557; 11 maggio 1998, n. 4727; 22 aprile 2002, n. 5857; 28 marzo 2003, n. 4753; 18 settembre 2003, n. 13736; 6 luglio 2004, n. 12309).
L’orientamento in esame è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 28 ottobre 1995, n. 11297, che pur riguardando specificamente il tema dell’assegnazione della casa coniugale in materia di divorzio, ha confermato la precedente interpretazione dell’art. 155 c.c., comma 4 (in materia di separazione) e la sua ratio costituita dalla tutela dei figli. Tale interpretazione è poi stata fatta propria anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 27 luglio 1989, n. 454 ed è stata confermata, più di recente, facendovi riferimento nella motivazione, dalla sentenza delle Sezioni Unite 21 luglio 2004, n. 13603 e successivamente da Cass. 4 maggio 2005, n. 9253.
In coerenza con questo orientamento si è affermato il principio secondo il quale in materia di separazione (come di divorzio) l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dalla legge 898/70, art. 6, comma 6 (come sostituito dalla legge 74/87, art. 11), essendo finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta, non può essere disposta a titolo di componente degli assegni rispettivamente previsti dall’art. 156 cod. civ. e dall’art. 5 legge 898/70, allo scopo di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, al soddisfacimento delle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati (così, da ultimo, Cass. 6 luglio 2004, n. 12309).
Questa Corte ha poi ancora affermato che i principi sopra esposti sono da confermare anche alla stregua dello jus superveniens, costituito dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha aggiunto all’art. 155 cod. civ. – a proposito dei “provvedimenti riguardo ai figli” – l’art. 155 quater. La nuova disposizione, infatti, mostra di volere dare consacrazione legislativa, con il riferimento all'”interesse dei figli” in genere – e non più all’affidamento dei figli (minori) – proprio al suddetto consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, statuendo altresì che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli” e che “dell’assegnazione il Giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici fra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà” (Cass. 24.7.2007, n. 16398; Cass. 22.3.2007, n. 6979; e in materia di divorzio Cass. 14.5.2007, n. 10994).
Questo orientamento è stato da ultimo confermato da Cass. 23.11.2007, n. 24407, che ha negato che il giudice della separazione possa sostituire l’assegno di mantenimento con l’assegnazione della ex casa coniugale, ostando all’interpretazione estensiva il fatto che l’assegnazione è prevista nell’interesse esclusivo della prole.
Il ricorrente sottolinea che la casa coniugale è bene diverso dal mero immobile in cui essa si trova. Contrappone all’immobile-parallepipedo-porzione di edificio oggetto del diritto reale o del diritto di godimento spettante ad uno dei coniugi, la casa coniugale intesa come complesso di beni immobili e mobili (arredi, suppellettili, elettrodomestici, pertinenze) e di servizi, centro degli affetti, interessi e consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. Afferma che sarebbe incivile negare che tale bene esista e debba essere oggetto di assegnazione quando non vi sono figli, assegnazione che deve aver luogo asseritamente a favore del coniuge più debole. Ciò perché l’assegnazione della casa coniugale non sarebbe soltanto strumento di protezione della prole, ma mezzo atto a garantire anche il conseguimento di finalità diverse quali quella all’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi anche dopo il divorzio o il favor per il coniuge più debole, che dovrebbe essere individuato come soggetto meritevole dell’attribuzione del centro di affetti, interessi e relazioni rappresentato dal bene casa coniugale.
La tesi sostenuta dal ricorrente non trova fondamento nell’interpretazione della disciplina normativa previgente ed attualmente vigente, che si è in precedenza richiamata. Se è indubbio che il ricorrente rappresenta una situazione, quella del coniuge più, debole nel senso già indicato, che può apparire de iure condendo meritevole di tutela, non può trascurarsi il fatto che tale tutela non è apprestata dall’ordinamento e che la sentenza che pronuncia la separazione ha pacificamente carattere costitutivo, sì che il suo contenuto, giusta il disposto dell’art. 2908 c.c., è di stretta interpretazione e non può andare al di là di quanto espressamente previsto dalla legge.
L’interpretazione proposta non coglie il fatto che, secondo la mens legis, in tanto ha un senso l’assegnazione della casa coniugale, intesa come centro di affetti, interessi e relazioni interpersonali, ad uno dei coniugi, in deroga all’ordinario assetto di interessi che discende dal diritto dominicale o dal diritto di godimento gravante sull’immobile, in quanto possa ritenersi che, nonostante la separazione dei coniugi, ancora sussista una famiglia. Venuta meno la comunanza di vita e di affetti tra i coniugi, in tanto può ancora parlarsi di famiglia in quanto vi siano i figli e la convivenza dei membri della famiglia prosegua, nonostante il vulnus inferto dalla separazione intervenuta tra i coniugi.
Ove non vi sia prole convivente, questo tipo di tutela non ha più ragione di sussistere né il legislatore ha ritenuto di adottare un diverso tipo di regolamento, facendo prevalere l’interesse alla tutela del coniuge più debole sul diritto reale o di godimento relativo all’immobile già sede della casa coniugale.
A tale proposito costituisce significativa eccezione la disciplina dettata in tema di successione legittima dall’art. 540, comma 2, c.c. che riconosce al coniuge superstite i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni, disciplina che il legislatore non ha ritenuto di estendere al di fuori del caso espressamente previsto.
Per quanto concerne la separazione, pertanto, il coniuge più debole andrà altrimenti tutelato in sede di regolamento economico degli interessi di ciascun membro della coppia, tenendo peraltro conto dell’incidenza sul reddito che la disponibilità della casa di abitazione, in forza degli anzidetti diritti, può assumere.
Deve pertanto affermarsi il seguente principio di diritto: “Il previgente art. 155 c.c., nel testo in vigente sino all’entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54, e il vigente art. 155 quater cod. civ., in tema di separazione, come l’art. 6 della legge 898/70, subordinano l’adottabilità del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla presenza di figli, minorenni o maggiorenni non autosufficienti conviventi con i coniugi. In difetto di tale elemento, sia che la casa familiare sia in comproprietà fra i coniugi, sia che appartenga in via esclusiva ad un solo coniuge, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, non autorizzandolo neppure l’art. 156 c.c., che non prevede tale assegnazione in sostituzione o quale componente dell’assegno di mantenimento“.